1.'MPARATE A PPARLÀ, NO A FATICÀ.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro, ma
ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima
tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un
serio e duro lavoro, ma fondono la prapria esistenza sul fumo dell'eloquio,
ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza,
molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di
quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai
vivendo ugualmente benissimo e mi riferisco, per parlar fuori dai denti, a
politicanti, sindacalisti ed affini.
2.MUNTAGNE E MMUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie
simili. E' una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare
intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la
considerazione che solo i monti sono immobili...
3.MUNZÚ,MUNZÚ È GGHIUTA ‘A ZOCCOLA ‘INT’Ô RRAÚ
Letteralmente: signor cuoco, signor cuoco è finito il ratto
nel ragú! Antica, ma ancóra usata espressione sarcastica usata per prendersi
giuoco delle persone meno esperte che incorrono, per imperizia, incapacità,
disattenzione colpevole in errori macroscopici nel tentativo di portare avanti
le faccende che intraprendono, come un inesperto, disattento incapace cuoco che
consentisse ad un ratto di finire nella pentola dove avesse in cottura il ragú
da anmmannire ai clienti. L’espressione canzonatoria nacque sfruttando la rima
tra i s.vi rraú= ragú ed il s.vo munzú.
Con il s.vo munzú (etimologicamente corruzione del francese
monsieur) in origine si indicarono i cuochi francesi chiamati nel Reame, in
occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria
Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria
Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse
ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria
Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto dei
raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea e da quel
momento non ci fu cuoco napoletano che non ambisse ad ottenere dalla propria
clientela il titolo onorifico di munzú. Rammento che l’invasione dei cuochi
d’oltralpe forní il destro per la nascita d’un’altra icastica voce napoletana:
zoza. Con il sostantivo in epigrafe in napoletano si indicano varie cose: il
sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di
erbe aromatiche, ma pure il fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli
intrugli edibili che, pur presentati come autentiche leccornie,non incontrando
il favore del gusto delle persone cui siano ammanniti, vengon da costoro
rifiutati e definiti tout court zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante,
nauseante, una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra
eccessivamente brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione
medicamentosa,dal disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a
deglutire(e mi tornano in mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di
merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche, dal nausebondo
sapore, approntate - contro tossi e febbri - da volenterosi semplicisti :
farmacisti/ erboristi cosí chiamati in quanto venditori di preparati per i
quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed infine
estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera raffazzonata di
talché il risultato risulti essere scadente, riprovevole e non confacente; fino
a giungere all’offensivo: SÎ ‘NA ZÒZA totalizzante offesa rivolta all’indirizzo
di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare come persona fisicamente
sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e ributtante.
Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante
offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato
primo stette ad indicare una miscela di liquori scadenti e successivamente
tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere un’alterazione
popolare della parola suzzacchera (forgiata sul greco: oxy-sakcharòn=zucchero
acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente,
terminazione diminutiva.
Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della
parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la tentazione che
zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di
una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta in
napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua, a mio avviso non
bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto
- sucidus donde per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata
neutra, poi sentita femminile sucia =cose sporche, sudice.
In realtà la parola napoletana è molto piú recente rispetto
al basso latino sucia o alla voce toscana zózza, e risale alla seconda metà del
‘700, quando vi fu a Napoli una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che
súbito, i napoletani, corrompendo il termine monsieur dissero munzú - chiamati
nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria
Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone,
sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che
fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria
Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto dei
raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato
però non fu quello sperato: i munzú d’oltralpe e le loro raffinate preparazioni
culinarie mal si sposarono (con la sola eccezione del sartú (dal francese
surtout ) tronfio e saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella
cucina napoletana dapprima di corte e della nobiltà, poi della borghesia ed
infine del popolo minuto) mal si sposarono, dicevo con i gusti dei partenopei;
essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed i sughi a
base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces francesi a base
di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono le salse galliche
storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte le
estensioni summenzionate, e trattandosi di un sostantivo fu e viene usato nel
napoletano quale apposizione di molti altri sostantivi.Ciò non pertanto, il
titolo di monzú come ò anticipato,attecchí fino a diventare la denominazione
che spettava solo ai grandi cuochi.Divenne e mi ripeto quasi come un titolo
onorifico, tanto ambíto che - cosí come riportato da Salvatore di Giacomo - un
celebre cuoco lo preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone
pure gli aveva offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo.
4.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione
di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i
carretti e non i camioncini, tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla
fatica, con ancóra i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene
riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati
di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere....
Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore
che faccia per intero il suo dovere...
5.N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, MA TU ME JESCE CU 'E PIEDE 'A
FORA...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei cosí
grosso)che non entri per intero nella pentola destinata all'uso. Id est: Ò
avuto a che fare con tantissimi pessimi soggetti (stronzi), ma tu sei il
peggiore di tutti, al segno che se ti dovessi bollire, eccederesti la misura
d’ogni pentola destinata all’uso… Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata
nei confronti di chi si dimostri cosí esagerato pezzo di merda che se mai
necessitasse di cottura, eccederebbe i limiti della pentola destinata alla bisogna
rendendo cosí difficile, se non impossibile l’ipotetica l’operazione! Anologa
esclamazione è quella che recita: N'
AGGIO APPISE STRUNZE, MA TU M’HÊ SPEZZATO ‘O CROCCO che ad litteram è: Ne ò sospesi stronzi,
ma tu (sei tanto grosso che) mi ài infranto il chiodo (deputato allo scopo).
BRAK
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