1.AVIMMO FATTO TRENTA, FACIMMO TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene
fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a
trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa
Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo.
2.AVIMMO FATTO: CUPINTE, CUPINTE: 'E CAVÉRE FORA I
'E FRIDDE DINTO.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati)
di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che
fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si dia via
libera a chi non è all'altezza della situazione e si lascia a bocca asciutta
chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie -
sono i favori di una donna).Tuttavia preciso che è inutile come che non
significante la traduzione letterale; in senso ampio, come ò détto, la
locuzione è usata per indicare l’incongruente azione di chi premi qualcuno
oltre i propri meriti e al contrario lesini il plauso o il premio a chi invece
spetterebbero; in senso piú strettamente letterale la locuzione si attaglia a
quelle occasioni allorché spinti dalla cupidigia si siano concessi i favori di
una donna a coloro che (freddi) non mostravano i necessarii requisiti fisici, e
si siano erroneamente negati ai piú meritevoli caldi tenuti ingiustamente fuori
sebbene mostrassero di essere adeguatamente... armati.
Letteralmente, di solito, in napoletano la parola cupínto sta per
Cupído, miticologico nume dell’amore; ma penso che riferirsi a lui per la
locuzione in esame sarebbe errato, non esistendo un nesso tra il benevolo nume
suddetto e l’errato, inesatto comportamento ricordato nella seconda parte della
locuzione; ò reputato piú giusto pensare, nella fattispecie della locuzione,
che il termine cupinte (pl. di cupinto), oltre a fornire una adeguata rima con
il termine dinto, sia stato usato come corruzione del termine cúpido: bramoso,
agognante, desideroso, quella brama o desiderio che può spingere all’errore.
3.AVIMMO PERDUTO A FFELIPPO I ‘O PANARO
Ad litteram: abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci
abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi.Nel caso di questa locuzione
ancóra in uso, affatto diversa dalla precedente il nome Felippo non è una
corruzione di Filippi, ma è il nome proprio Filippo rammentato in una non
meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal
Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie , perché la
portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a
gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute nella cesta, e temendo
poi le reazioni del padrone, evitò di tornare a casa lasciando il povero
Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe. Nota linguistica In
questa ’espressione il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il
nome proprio Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto
dalla preposizione A, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene
introdotto da ô (crasi di a +’o(lo/il)), ma viene introdotto dal semplice art.
determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano la preposizione A è
usata talvolta per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento
oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un
oggetto (es.: aggiu visto a ppàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca
alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma
aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò
sentito la campana.) La ragione di questa particolare A segnacaso del
complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che
venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte
per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo
di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una
frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di
vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un
dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il
soggetto anteposto al verbo reggente, per il latino della decadenza
volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non
ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferí porre il
soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto piú verosimile
l’idea che tale particolare A segnacaso del complemento oggetto sia un residuo
plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il
portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’A come segnacaso del
complemento oggetto.
4.AVIMMO PERDUTO 'APARATURA
I 'E CENTRELLE.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini.
Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano
addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali
addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto
mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi
ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente
viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano
distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
5.AVUTÀ ‘O SCIAVECHIELLO
Ad litteram: girare il rastrello ovverossia: mutare posizione,
girare le spalle, dar le terga ad argomenti o a stati, momenti sgraditi. La
locuzione è mutuata dal comportamento dei pescatori di telline o altri piccoli
molluschi che si raccolgono rastrellando la battigia umida, dove essi si
annidano,con una sorta di rastrello munito di reticella che di solito viene
faticosamente spinto in avanti per smuovere l’arena bagnata e trarne i
molluschi. Allorché l’operazione diventa troppo faticosa i pescotori spostano
il rastrello alle spalle ed invece di spingerlo, lo trascinano ottenendo, con
minore fatica, ugualmente buoni risultati (si lavora di piú a spingere che a
tirare o trascinare!). La voce sciavechiello= rastrello con rete è un s.vo
diminutivo maschilizzazione del femm.le sciaveca = sciabica che è grossa rete a
strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri
galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi
faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo
piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il
fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dint’ a ll’acqua id est:
star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star lavorando
faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia pure
erronea) che il mestiere di pescatore non sia mai abbastanza remunerativo. Etimologicamente
la parola sciaveca pervenuta nel toscano come sciabica è derivata al napoletano
(attraverso lo spagnolo xabeca) dall’arabo shabaka da cui anche il
portoghesejabeca/ga. Rammento al proposito che essendo lo sciavechiello
(rete/rastrello) notevolmente piú piccolo della rete sciaveca, si è resa
necessaria la maschilizzazione del nome (al di là del diminutivo) dovuta al
fatto che in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso, se
maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad .
es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú
grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a
‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú
piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo
piú grande de ‘a caccavella.
Brak
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