1.I' TE CUNOSCO PIRO A LL' UORTO MIO.
Letteralmente: Io ti conosco pero nel mio orto. Id est: Io
conosco bene le tue origini e ciò che sei in grado di produrre; non mi inganni:
perciò è inutile che tenti di far credere di esser capace di mirabolanti o produttive
imprese... La cultura popolare attribuisce le parole in epigrafe ad un
contadino che si era imbattuto in una statua di un Cristo circondata di fiori e
ceri. Il popolino aveva attribuito alla statua poteri taumaturgici, ma il
contadino che sapeva che la statua era stata ricavata da un suo albero di pero,
tagliato perché improduttivo, apostrofò la statua con le parole in epigrafe,
volendo far intendere che non si sarebbe fatto trasportare dalla credenza
popolare e conoscendo le origini del Cristo effiggiato, non gli avrebbe
tributato onori di sorta.
2.JAMMO, CA MO S’AIZA
Ad litteram: andiamo,
ché adesso si alza; id est: muoviamoci ché il sipario sta per andar su;
locuzione usata un tempo sia dai servi di scena per avvertire gli attori di
tenersi pronti,sia da gli imbonitori dei teatrini rionali per invogliare gli
sfaccendati ad accedere al teatro fornendosi al botterghino del biglietto
d’ingresso, essendo prossimo l’inizio dello spettacolo, ed usata oggi per
sollecitare chiunque in vista dell’inizio di qualcosa cui debba partecipare.
3.JETTE PE SE FÀ 'A CROCE E SSE CECAJE N'UOCCHIO
Letteralmente: Si accinse per segnarsi con la croce e finí
per mettersi un dito in un occhio.Détto sarcasticamente di chi cosí tanto
sfortunato, sventurato à un ritorno negativo da qualsiasi cosa si disponga a
fare, persino da pie pratiche religiose! jette voce verbale (3ª pers. sg. pass.
rem.) dell’infinito jí/ghí (dal lat. ire). pe = per preposizione semplice
derivata come il per dell’italiano dal lat. pe(r) ed al proposito rammento che
quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola o piú consonanti in
fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una
vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe
invece se a cadere fosse una intera sillaba; ecco dunque che ciò che accade per
il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con)
derivante dal latino cum per pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove
cadendo una sola o una doppia consonante ( x - m – r - st ) e non una sillaba
non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile,
pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio
napoletano di Luogo lla (in quel Luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia
l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c):
in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare
distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente
l’omofono ed omografo la art. determ. f.le. C’è invece un napoletano po’ che
necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di
potere) che derivando dal lat. po(te)(st) comporta la caduta d’una vera
sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere
gli omofoni po = poi e po’ = può. Nel napoletano scritto c’è una sola parola
nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola
residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che
talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con
l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e
ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali
è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile
nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo
indeterminativo femminile ‘na che è erroneamente reso na senza alcun segno
diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘)
comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non
fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello
scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo, E. Nicolardi etc.e giú giú
fino ad E.De Filippo.) Qualcuno, fautore della derivazione del napoletano mo
dal lat. modo, mi à fatto notare, e lo dico per incidens, che il termine mo non
potrebbe derivare, come invece l’amico Renato de Falco ed io sosteniamo, da mox,
in quanto –pare - che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere
senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una
dentale intervocalica come la d di modo. Ora,a parte il fatto che anche le piú
ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad
es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto
dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche
ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce
perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che
vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo
quando,nell’àmbito di un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero
creare confusione. Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel
toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di
modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il
termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi
segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso). fà = fare (
apocope del lat. facere) che preferisco scrivere accentato (come tutti gli
infiniti in are→à(cfr. magnare→magnà)ere→é(cfr. cadere→cadé) ire→í
(cfr.murire→murí)piuttosto che apocopato, evitando di scrivere – come invece
propone qualcuno fa’ o alibi da’ per dare che potrebbero esser confusi con gli
imperativi fa’= fai o da’= dai. se cecaje voce verbale (3ª pers. sg. pass. rem.
dell’infinito riflessivo cecar/se (dal lat. caecare+ se) uocchio s.vo m.le =
occhio (dal lat. ŏculu(m)→ ŏclu(m)→uocchio con dittongazione della ŏ e
risoluzione in chi del gruppo cl seguito da vocale come in
clausu(m)→cl(a)usu(m)→chiuso,clavu(m)→chiuovo etc.
4.JÍ ‘E PRESSA
Ad litteram: andar di
fretta; id est: aver premura, procedere con assoluta rapidità, quasi
sollecitato dalla necessità di non perdere tempo. dall’iberico: de prisa di
uguale significato.
5.JÍ ‘E RENZA, JÍ ‘E
SGUINCIO, GHÍ ‘E RAZZAVIELLO
Le locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la
medesima cosa riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare.
Non è cosí. C’è una differenza sostanziale tra le tree locuzioni;infatti jí ‘e
renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel
procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghí/jí ‘e
sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che
comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è
usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo
ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto,
subdolo, non lineare, in una parola: sleale; con la terza locuzione gghí ‘e razzaviello
si ritorna nell’àmbito della deambulazione e solo in quello; la locuzione
infatti (indicando precisamente il solo reale procedere a sghimbescio, in
maniera ballonzolante a mo’ di trottola per di piú scentrata) non è mai usata
in senso traslato come succede invece per gghí ‘e sguincio; non semplicissima
l’etimologia del termine razzaviello peraltro assente nella gran parte dei
calepini della parlata napoletana; il D’Ascoli che con il D’Ambra fu l’unico a
trattare il termine, non lo indicó né come s.vo. né come agg.vo, né lo definí
con chiarezza e fantasiosamente lo collegò all’agg.vo razzapeluso= ruvido a sua
volta fatto derivare (sempre piú fantasiosamente) da raspulento= ruvido,
rugoso, grinzoso; non si capisce proprio quale possa essere la strada semantica
seguíta dal D’Ascoli per collegare qualcosa di ruvido, rugoso, grinzoso con
qualcosa che proceda di sghimbescio o in maniera ballonzolante. No, non ci
siamo! A mio avviso, restio come sono a trincerarmi dietro un pilatesco etimo
incerto o sconosciuto, ipotizzo che razzaviello sia un s.vo (usato peraltro
solo nella locuzione avv.le indicata) formato attraverso l’agglutinazione del
sostantivo razza (variante locale di razzo=raggio di ruota) con un derivato
della voce verbale *avellere collaterale di *e(x)vellere= strappare nel
significato di raggio (di ruota)allentato o divelto e dunque scentrato e
ballonzolante cosa che rimetterebbe a posto la questione semantica e metterebbe
fine alle fantasie del D’Ascoli;proseguiamo: sguincio viene dal francese guenchir
(procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa; il termine renza viene
dal participio presente del verbo latino àerere= aderire; in napoletano infatti
si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo
di fare.In coda rammento che delle tre espressioni solo quella che recita
gghí/jí ‘e sguincio (andare di sguincio) è stata accolta nella lingua
nazionale, quantunque assegnando al s.vo sguincio il significato di linea,
struttura obliqua.di talché in italiano andare di sguincio vale procedere
obliquamente e non (come esattamente è nel napoletano) procedere di
sghimbescio, tortuosamente. Ma non è da meravigliarsi: è antico vizio di chi fa
la lingua italiana, pescare nell’idioma partenopeo spesso però snaturando significato
o morfologia delle voci accolte: ‘nu poco ‘e pacienza e ppeggio pe lloro!
BRAK
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